Qui sotto riportiamo il testo di una intervista di Mara Accettura a Mikael Coalville-Andersen che ha creato la società Copenhagenize per diffondere nel mondo il modello di traffico sostenibile a due ruote.
L’intervista è comparsa sul supplemento D de La Repubblica di sabato 4 agosto 2018, nella rubrica “Futuro Urbano”
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“ Mikael Colville-Andersen ha attraversato 65 città del mondo in bicicletta. Se fosse per lui, designer urbano mezzo danese e mezzo canadese, la bici dovrebbe essere messa sul piedistallo, invece di essere considerata un accessorio, maltrattato dal traffico automobilistico. Per questo il fondatore di Copenhagenize Design Company è consulente di governi cittadini e nazionali per lo sviluppo urbano sostenibile.
La sua esperienza ventennale è adesso concentrata in un libro: Copenhagenize: The Definitive Guide to Global Bycicle Urbanism. “L’esperienza di Copenhagen è esportabile ovunque” dice. “Voglio che questo libro diventi la bibbia dell’urbanesimo in bici”. Lo incontriamo in un bar di Milano dove è venuto a girare una puntata di Racconti dalle Città del Futuro (Life-sized cities, serie che sarà trasmessa la prossima stagione tv su laEffe, canale Sky 135).
Perché è così importante andare in bici in città ?
“Innanzitutto è lo strumento più efficiente per muoversi da A a B, per collegare centro e periferia. Dal 1996 chiediamo ai cittadini di Copenhagen “Perchè usate la bici ?” e la risposta è sempre la stessa: ”Perchè è veloce”. Noi danesi siamo pragmatici, ci piace anche misurarle queste cose, per cui abbiamo voluto verificare se lo è più della macchina. Bene. Una pista ciclabile di 2 , 3 metri a senso unico sposta 5.900 persone all’ora, la corsia 1.300 auto e se c’è traffico questo numero si riduce. Certo, la metro è più veloce, ma a livello strada la bici è imbattibile. Poi è uno strepitoso collante sociale. In sella siamo più connessi a ciò che succede intorno a noi perché notiamo il bar appena aperto, la svendita in quel negozio, l’amico che attraversa la strada. La bici è umana, è muscoli e sorrisi. Ai semafori si può sentire il profumo di chi ci sta accanto, notare le sue scarpe, pensare di flirtarci. E’ interessante. Per non contare i soldi che ci fa risparmiare in salute pubblica. Sono tutte cose che noi misuriamo con numeri, e per questo motivo non c’è mai opposizione politica a quello che facciamo. La bici è un modello di business, la macchina no: è un grande buco nero in cui finiscono un sacco di soldi”.
Perché Copenhagen è un modello per molte città del mondo, e dove ha visto le pratiche migliori ?
“A Copenhagen abbiamo iniziato tanto tempo fa. Inoltre è una città che si può “copiare e incollare”: un centro medievale poi grandi viali. Amsterdam è altrettanto virtuosa e mi piace molto, ma è poco esportabile per via dei canali. A Bordeaux avevano il 2% di bici, da quando hanno reintrodotto il tram sono arrivati al 10% e le auto si sono ridotte. Parigi è molto interessante: ha il 5% del traffico su due ruote e 20mila bici in sharing. Devono solo migliorare po’ il design. Londra invece è ridicola, il 2%. Le loro famose superhigway sono semplicemente segnalate da pittura blu, come fosse un campo di forza invisibile che protegge i ciclisti. Ma sono inglesi, e fanno un sacco di rumore in proposito. New York è ancora al 2%, ma molte città americane si stanno muovendo da quando hanno scoperto che i Millennial vogliono vivere in quartieri cool con start-up, buoni caffè e piste ciclabili. Molti di loro non guidano e non sono interessati a prendere la patente”.
In Cina e altri paesi in via di sviluppo però succede il contrario. Come lo spiega ?
“Nel 1998 Pechino aveva il 60% di traffico su bici e Copenhagen il 15%, l’anno scorso le cifre si sono invertite ma il 15% è comunque un numero enorme e visibile per strada. Ora i cinesi si stanno rendendo conto dell’errore e spero possano rimediare perché in 20 anni hanno fatto i danni che noi abbiamo fatto in 70. Pechino vuole tornare indietro a causa del folle inquinamento. A Guangzhou hanno costruito mille chilometri di piste ciclabili, anche Shanghai adesso lo sta facendo”.
Che tipo di infrastrutture consiglia ai governi ?
“Prima faccio due domande: quante macchine ci sono al giorno su strada e quale è il limite di velocità. La prima infrastruttura è una non infrastruttura, perché se il volume del traffico è basso e la strada residenziale non ne hai bisogno. Se il limite è di 40 km all’ora o il volume incrementa in certe ore del giorno, è necessario dipingere una corsia unidirezionale di 2 o 3 metri su entrambi i lati della strada. Se è di 50 o 60 km, bisogna separare fisicamente le piste da passanti ed auto, con un marciapiede o altre barriere. Se il limite è di 70 km le bici devono stare proprio lontane dalle auto. Le ciclabili devono essere sempre unidirezionali, perché quelle a doppio senso sono pericolose.
E quali sono gli errori più comuni ?
“Quello universale è fare passi da bambini. Pensare che una pista ciclabile su una strada significhi promuovere la cultura della bici. Bisogna avere un progetto in testa come si fa per i tram o le metropolitane. A Buenos Aires e a Siviglia si sono inventati tutto da zero e l’incremento del traffico in bici è stato eccezionale.
In questi giorni ha girato per Milano in bicicletta. Che idea si è fatto ?
“Ho pedalato con Massa Marmocchi (gruppo di genitori che porta i figli a scuola in bici, ndr) fermando il traffico. Sono rimasto sorpreso perché ho visto più gente in bici di quanto mi aspettassi: giovani, vecchi, mamme, bambini. Ci sono anche chioschi su due ruote. La percentuale di ciclisti va dal 6 all’8%, che è un buon numero, e inoltre ci sono infrastrutture ben disegnate, come le intersezioni protette agli incroci. Molte città non separano fisicamente corsie per le auto e piste ciclabili, qui invece accade. Il problema è che non c’è un network ma spezzoni sparsi. Quindi si è poco invogliati. Se questo cambia il volume del traffico potrebbe facilmente schizzare dal 6 al 20% in soli cinque anni. Milano è una città perfetta per questo mezzo.
Secondo lei Milano è una life-sized city, una città a misura d’uomo ?
“Tutte le città italiane lo sono state prima dell’avvento dell’auto. C’è un cliché su Milano: i brand, la moda e le banche, ma non è così. Sono accadute molte cose dalla mia ultima visita nel 2006: c’è una cultura imprenditoriale. Ho visto una città europea con bei quartieri e gente interessante da tutto il mondo. Qui l’amministrazione e i cittadini si danno da fare per recuperare spazi abbandonati come la cascina Cuccagna, trasformare quartieri popolari come Nolo, creare eventi in periferia, coinvolgere gli immigrati. Non aspettano le istituzioni con i loro noiosi ingegneri e urbanisti per cambiare le cose, ma spingono dal basso. Questo modello è supercool”.
Però avrà notato anche l’onnipresenza delle auto.
“Sì. Ho letto che il 50% delle auto è di proprietà. La stessa proporzione di Berlino e New York. Non è male, considerato che molto di questo traffico è di passaggio e la sera le strade tornano silenziose. Qualche anno fa ero a Ferrara,a discutere con gli urbanisti della città su un progetto. Uno di loro guardando la mappa e il centro della città, indicava le strade e diceva: “Qui abbiamo un sacco di parassiti” e poi: “Parassiti anche qui”. Gli ho chiesto cosa intendesse e mi ha risposto che i parassiti sono quelli che attraversano la città senza fermarsi al mercato o dal parrucchiere. E’ vero: molti guidatori non vivono a Milano, sono i residenti a pagare per il loro traffico. E poi c’è un’altra cosa. Sabato notte, su una di queste strade, c’era una lunga colonna di macchine parcheggiate in mezzo alla corsia delle auto. i proprietari erano tutti al ristorante. Non capisco. E’ normale ?”
Quindi c’è ancora molto da fare ?
“Nella classifica di Copenhagize, Milano occupa il 54esimo posto su 136 città. La congestion charge non è abbastanza per sconfiggere la cultura dell’auto. Occorre ridistribuire lo spazio, ridemocratizzarlo e costruire un network per le bici, cosa piuttosto facile perché non mancano i viali. Sfortunatamente questo è uno dei casi in cui il modello bottom-up non funziona: serve la volontà politica. In tutte le città del mondo che hanno reintrodotto la bicicletta come Siviglia, Bordeaux, Minneapolis, Buenos Aires, gli attivisti hanno stimolato il processo ma c’è voluto il sindaco o l’assessore ai trasporti per renderle ciclabili”.
Come si è appassionato alle biciclette ?
“A me non importa nulla della bici in sé. Non sono un ciclista e tanto meno un nerd: non so nemmeno ripararle. Pedalo su una vecchia due ruote, non uso tutine elasticizzate per girare e sono contrario ai caschi. Mi interessa l’aspetto poetico”.
Quando ha scoperto quello che voleva fare ?
“Nel 2006 stavo andando a lavorare, per un’emittente tv danese, quando mi fermai ad un semaforo. Davanti a me c’era una ragazza. Al verde una massa di auto e bici è scattata correndo, ma lei non si muoveva. Ho fatto una foto e l’ho pubblicata su Flickr con la didascalia: “Un pilastro di calma in un mondo caotico”. All’improvviso ho ricevuto un diluvio di commenti. Gli americani scrivevano: “Ma come fa a pedalare con gli stivali ? Con la gonna ?”. A me sembravano domande stupide, ma per un sacco di gente non avvezza alla cultura del ciclismo, quell’immagine non era normale. Avevo intercettato un interesse. Così ho continuato a fotografare immagini urbane cool per il blog Copenhagen Cycle Chic e poi copenhagenize.com. Così sono diventato il tipo che parla delle bici. Adesso siamo una grande famiglia che sta cambiando il modo di vivere la città. “